L'intervista

Storie d'impresa: quando l'amministratore delegato ha solamente 26 anni

La falegnameria fondata dal nonno in Val Bormida è diventata un'azienda che occupa 14mila metri quadri e lavora in tutto il Nord Italia.

Storie d'impresa: quando l'amministratore delegato ha solamente 26 anni
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La storia d'impresa di Samuele Pirotto, che a soli 26 anni dirige l'azienda che fu fondata in Val Bormida dal nonno come falegnameria ma che ora occupa un'area di 14mila metri quadri.

La storia di Samuele Pirotto, giovanissimo ad dell'impresa di famiglia in Val Bormida

Quante aziende in Italia possono vantare un amministratore delegato che ha 26 anni? E che lo è da quando ne aveva 22? Credo si possano contare sulle dita di una mano. Una di queste è il Gruppo Pirotto che ha sede nel piccolo comune di Pallare, in provincia di Savona: si sviluppa su un’area di circa 14.000 mq ma allarga il suo raggio di servizio clientela a tutto il nord Italia. Per arrivarci bisogna inerpicarsi per una ventina di chilometri nella Val Bormida dopo aver lasciato l’A10 all’altezza di Savona. Il suo amministratore delegato è Samuele Pirotto e lo intervistiamo al telefono una mattina mentre torna in auto da Aosta dove ha appena concluso una riunione di lavoro.

Partiamo dalla storia del gruppo

«L’azienda è stata fondata da mio nonno Bruno che diede vita a una falegnameria specializzata nella produzione e vendita di pallets e semilavorati. Negli anni ’90 subentra il figlio Massimo, mio padre, che ne aumenta il volume d’affari fino ad affiancare alla tradizionale segheria una nuova società dedicata alla realizzazione di strutture in legno lamellare pretagliate. Il Gruppo Pirotto nasce nel 2014 e i due reparti vanno avanti così fino a quando arrivo io».

A quel punto che succede?

«Facciamo un po’ di cambiamenti rivoluzionando gli impianti e potenziando il reparto costruzioni. Fino al 2022, quando chiudiamo la produzione degli imballaggi e creiamo il Centro Servizi Edile che propone le case in legno occupandocene a 360°, dalla progettazione alla realizzazione e fornendo tutti i materiali edili necessari».

Un successo, visto che il Gruppo Pirotto passa da una quindicina di dipendenti agli attuali 60 e che il fatturato vola da 3 a oltre una dozzina di milioni di euro.

Fino a quel punto qual era stata la sua formazione professionale?

«Mi sono diplomato geometra col massimo dei voti e mi piaceva molto studiare. Mia mamma Daniela e i miei professori insistevano perché continuassi a studiare; papà premeva perché gli dessi una mano in azienda».

Mi sembra che abbia vinto papà Massimo

«D’altra parte, per me non era una novità: fin da piccolo passavo il mio tempo libero e le mie estati in azienda. Semplicemente vi sono passato a tempo pieno».

Lei smentisce lo stereotipo della terza generazione secondo cui la prima costruisce, la seconda sviluppa e la terza, appunto, distrugge: ci sono state difficoltà nel passaggio generazionale?

«Assolutamente no. La bravura di mio papà è stata quella di dirmi: “Vieni in azienda e hai carta bianca. Prova, sbaglia, impara: è il modo migliore per diventare grandi”. E così è stato. Anche se siamo quasi sempre d’accordo, al 98%, non sempre è stato facile e le occasioni per discutere non sono mancate. Ma siamo stati bravi anche a dividerci i compiti in modo che i dipendenti avessero sempre i loro punti di riferimento: lui segue la produzione e io mi sono focalizzato sulla parte tecnico-commerciale e su quella amministrativa che ho dovuto imparare».

Si è rimesso a studiare?

«Sì, dopo un paio d’anni ho capito di aver bisogno di maggiori conoscenze su certi argomenti e ho frequentato un corso in SDA Bocconi General Management per le PMI che mi ha permesso di colmare le lacune amministrative che avevo».

Diciamo che anche suo padre, complimenti, ha smentito un altro stereotipo: quello dell’imprenditore che non cede mai le redini dell’azienda. Vediamo se ne smentisce un altro. Si dice che le Piccole e Medie Imprese siano caratterizzate dall’accentramento decisionale di quello che una volta era definito il “padrone” dell’azienda e che oggi, all’inglese, chiamiamo “ceo”, nemmeno più “amministratore delegato”. Lei ha fatto tutto da solo?

«Ci mancherebbe! Quando sono entrato in azienda ho capito subito che, se volevamo crescere, avremmo avuto bisogno di assumere persone con le competenze adeguate. Così abbiamo ampliato la linea dei manager, dall’area commerciale a quella tecnica. E la crescita è arrivata: in poco tempo abbiamo quadruplicato il numero dei dipendenti, fatto crescere il fatturato e un paio di mesi fa abbiamo inaugurato il nostro secondo punto vendita per l’edilizia».

Quanto le è costato, da giovane qual è, raggiungere questi risultati?

«Non è stato semplice e ho pagato anche un prezzo piuttosto alto. C’è stato un periodo in cui il mio fisico non ha retto e sono stato costretto anche a un ricovero in ospedale. Se si esagera, alla fine il conto arriva. Se non fosse successo, però, non avrei capito certe cose, certi meccanismi: tutto serve, anche questo mi ha aiutato a crescere».

Anche gestire i rapporti con gli altri, in particolare gli amici o le persone care, non deve essere facile...

«Se devi guidare un’azienda e sei impegnato dalle 6 del mattino alle 8 di sera, a volte succede pure di perdere delle amicizie e, persino, trovare chi si manifesta amico solo per approfittarsene… L’ho messo nel conto».

Immagino anche sotto l’aspetto sentimentale

«In effetti ho dovuto interrompere una relazione con una bravissima persona che, però, non reggeva il mio ritmo frenetico. E la capisco… Per fortuna, poi, ho incontrato una persona con un carattere forte e che sa dirmi quando mi devo fermare».

Mi dicono, poi, che le piacciono le auto veloci e che si dilettava nelle gare di rally. Quei tempi sono finiti?

«È vero, mi piaceva correre in auto. Ma ho smesso perché era incompatibile col mio lavoro. Se è per quello ero uno sfegatato anche delle ultramaratone: avevo smesso, ma da un po’ ho ripreso, grazie anche alla persona che mi sta accanto, che mi aiuta a trovare i ritmi giusti per me».

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