La storia

L’intervista: “Mia madre è stata uccisa quando aveva solo 22 anni”

«I femminicidi continuano ad accadere. Serve un cambio di mentalità, di cultura. Io sono fiducioso nelle nuove generazioni, nel cambiamento futuro. Sono un allenatore di calcio e ho modo di parlare con i giovani e molti mostrano una sensibilità e una comprensione che fanno sperare. Il lavoro delle Istituzioni aiuta ma serve maturare una coscienza personale. Bisogna restituire il giusto valore alla vita umana perché questo è il centro. E sono convinto che ci si possa riuscire».

L’intervista: “Mia madre è stata uccisa quando aveva solo 22 anni”

Nonostante un femminicidio. Nonostante una tragedia. Si può continuare a vivere, si può capire cosa significhi amare e non perdersi. La maggior parte dei figli delle donne uccise (lo dicono gli studi sul tema) non riescono a superare il trauma ma c’è anche chi è riuscito a costruirsi un’esistenza solida. Con fatica, certo, ma si può. E’ questo messaggio di speranza che Marco Merzoni vuole portare, facendo rivivere mamma Elena nel raccontarla.

«Mia madre è stata uccisa da suo marito, che nel frattempo aveva lasciato, nel 1973».

Può raccontare dall’inizio?

«Mia mamma, di origine bresciana, si era trasferita nel novarese, figlia maggiore di sette fratelli, per il lavoro del padre, mungitore. Con l’impiego era compreso anche l’alloggio. Lei amava ballare, uscire con gli amici. Si è innamorata del cantante di un gruppo che suonava nelle balere e nel 1968 sono nato io. Lei aveva 17 anni, aveva trascorso il periodo della gravidanza dalle suore perché in quegli anni, una ragazza madre era comunque uno “scandalo”. Non ha rinunciato a me. Non solo, quando il mio papà biologico è venuto a cercarmi per portarmi con sé e crescermi nella sua famiglia, non ha accettato: voleva essere mia madre».

E poi?

«Ha studiato come parrucchiera e ha iniziato a lavorare. Un “collega” di suo padre si è proposto di sposarla e di “sistemare le cose”, riconoscendomi come suo figlio e prendendosi cura di tutte e due. La famiglia ha accettato forse pensando fosse la soluzione migliore».

Non è stato così…

«Era aggressivo, la picchiava, le ha imposto di lasciare il lavoro e non ha mantenuto alcuna delle promesse fatte, tanto che io continuo a portare il cognome di mia madre, per fortuna. Nel 1970 nasce mia sorella Michela ma la vita in casa è insostenibile. I litigi sono continui come le urla. Io ero piccolo e ho pochi ricordi lucidi ma ci sono scene che si sono marchiate nella mia mente. Una frase ripetuta spesso da lui: “Stai dietro a quel bastardo invece di occuparti di tuo marito” e il bastardo ero io. I carabinieri a casa nostra, io seduto sul divano, e mi chiedevano se il litigio fosse colpa della mamma o del papà. Spesso stavo dai nonni per la paura che mi facesse del male».

Sua madre decide di lasciare quest’uomo.

«Sì, torna dai suoi genitori e apre una piccola attività tutta sua; in quegli anni le regole erano diverse e si poteva avere casa e bottega collegate. All’inizio sembra che si possa ricominciare tutti e tre insieme, con i nonni e gli zii ma lui continua a perseguitarla, a tormentarla, a seguirla, a insultarla. Il 23 marzo 1973 io ero con i nonni per le funzioni pasquali in paese, mia madre stava terminando di sistemare il negozio: lui è entrato e l’ha uccisa in modo brutale. Poi è uscito, è andato al bar del paese, ha lasciato portafoglio e chiavi della macchina alla sua sorellastra affermando che aveva “combinato un disastro”. Mia madre il 23 settembre avrebbe compiuto 23 anni».

Come avete vissuto “dopo”?

«La vita della mia famiglia è cambiata per sempre. Io e mia sorella abbiamo evitato l’orfanotrofio perché siamo stati adottati dai miei nonni ma fino a 14 anni non ho mai visto una foto di mia madre, non abbiamo mai parlato di lei e di quanto fosse accaduto. Tacere e dimenticare. Nascondere affinché il tempo potesse “fare il suo lavoro”. Forse anche per questo non ricordo nulla dei miei primi 5 anni».

Come ha vissuto questa scelta imposta una volta divenuto adulto?

«Negli anni dell’infanzia anche il paese ha scelto il silenzio e la rimozione; nessuno mi additava come il figlio della donna uccisa. E’ capitato più avanti, quando da ragazzo suonavo la chitarra nel circolo del paese e quell’uomo era lì. Gli amici me lo indicavano: “C’è quello che ha ammazzato tua madre”, “non vuoi ucciderlo?” Non gli ho mai rivolto la parola, non ho mai avuto contatti. Sono cresciuto come un ragazzo empatico, affidabile, che pensava prima agli altri, che si dedicava a tutte le attività oratoriali, di beneficenza. Il pensiero di non aver vissuto con mia madre, di non averla conosciuta, è arrivato in tarda età».

In un momento preciso?

«Mi sono sposato, ho avuto un figlio che ora ha 21 anni e poi, con tanto dolore e fatica, mi sono separato. Non ho mai condiviso la mia storia, quello che portavo dentro. Poi ho incontrato Giada nel 2013, mia moglie, ed è cambiato tutto. Ho avvertito un senso di vuoto, mai di colpa, e la necessità di parlarne. Mi sono sentito pronto E’ stata lei a spronarmi, a chiedermi perché non volessi sapere e capire. E soprattutto mi ha confermato che lei ci sarebbe stata, mi sarebbe rimasta accanto in questo percorso. Io credo che in qualche modo mia mamma abbia guardato dall’alto e per questo abbiamo costruito una famiglia e superato tante difficoltà».

Ha avuto timore di diventare padre?

«No, però con il mio primo figlio non ho vissuto la genitorialità e mi spiace tanto. Non era in grado forse di affrontare delle relazioni affettive profonde. Di sicuro ho commesso degli errori e spero che mio figlio possa, un giorno, comprendermi in maniera profonda e dare una possibilità al nostro rapporto perché il tempo è prezioso e non vorrei vivere nel rammarico anche con lui. se potessi avere qui il mio di padre, guarderei all’opportunità di stare con lui e non agli anni di assenza. Con la seconda paternità è stato diverso, perché io ero diverso».

Ora cosa prova?

«Sono molto felice perché Giada è una persona stupenda e nostra figlia Gioia, 5 anni, è meravigliosa. Ci sono momenti di rammarico che ancora non riesco a gestire, anche se il percorso psicologico che ho affrontato mi ha aiutato. Se hai tutto ciò che la vita ti può dare, cosa pretendere ancora? Eppure, nei momenti di massima allegria, come il Natale per esempio, subentra una sorta di paradosso, di “invidia” per chi ha una storia, dei ricordi da raccontare e condividere. Quello che io, con mia madre, non ho e non potrò mai avere. E’ il rammarico di ciò che poteva essere e non è stato. Capisco che per chi ti sta accanto possa apparire incomprensibile e io non voglio essere quello che rovina la festa… eppure è un aspetto che non ho ancora sotto controllo appieno».

Quale è stato l’iter della giustizia per l’uomo che ha ucciso sua madre?

«Il processo è stato veloce ma i genitori di mia madre non si sono costituiti parte civile tanto che non ci fu alcun risarcimento. In quegli anni la sensibilità era diversa e in più non avevamo nemmeno possibilità economiche per pagare gli avvocati. Lui è stato condannato, è stato in carcere ma dopo soli due anni è uscito per buona condotta. Per questo lo incontravo in paese. Abbiamo scoperto che aveva anche un precedente: aveva sparato alla ex fidanzata con una carabina ma non era riuscito a colpirla. Ora lui è morto e ha fatto morire di crepacuore la madre adottiva».

Quale il suo rapporto con sua sorella?

«Sono la sua voce. Lei non ama esporsi e ha dato a me il compito di raccontare e di testimoniare che si può continuare a vivere e ad amare anche dopo una tragedia come quella accaduta alla nostra famiglia. Lei ha dovuto affrontare anche il dramma di essere figlia dell’uomo che ha ucciso nostra madre. Lei porta il suo cognome ma lei non ha colpe e noi ci siamo sempre voluti bene, siamo sempre stati uniti. Ci si può perdere per rabbia, per sete di vendetta, per repulsione. Noi siamo l’esempio che l’amore vince sempre».

Ha scelto di parlarne anche per sensibilizzare i più giovani e non solo: quale il messaggio?

«I femminicidi continuano ad accadere. Serve un cambio di mentalità, di cultura. Io sono fiducioso nelle nuove generazioni, nel cambiamento futuro. Sono un allenatore di calcio e ho modo di parlare con i giovani e molti mostrano una sensibilità e una comprensione che fanno sperare. Il lavoro delle Istituzioni aiuta ma serve maturare una coscienza personale. Bisogna restituire il giusto valore alla vita umana perché questo è il centro. E sono convinto che ci si possa riuscire».

Cosa le resta di sua madre?

«Poche foto, un paio di ricordi, un orologio che ho donato a mia moglie, qualche pagella delle elementari e la carta d’identità. lei vive nel racconto di chi l’ha conosciuta, racconti che sto recuperando in questi ultimi anni, dopo tanto silenzio. Quello che davvero resta è la sua eredità. Raccontando di lei ne abbiamo riabilitato l’immagine: non era una ragazza che “se l’era andata a cercare”, ma una donna coraggiosa, che ha cercato l’amore, che ha voluto salvare se stessa e i suoi figli. Una donna libera e forte. Parlare di lei è come stare insieme a lei».