La storia di Stefano Alassio: "Così sono diventato assistente arbitrale internazionale"
«La mia grande passione naturalmente era il pallone, fin da piccolo. Ero uno che protestava con gli arbitri, uno che oggi... mi espellerei, lo dico onestamente. Contestavo sempre… e a giocare a calcio in verità non ero molto bravo. Finché un giorno protestai più del solito e l’arbitro mi disse: “È inutile che fai il fenomeno, se sei bravo dimostralo e vieni a fare il corso arbitri”».

Stefano Alassio, 45 anni, laurea in Storia, assicuratore, ma di fatto arbitro di professione, è dal 2019 assistente arbitrale internazionale. Premiato nei giorni scorsi dal Panathlon Club della sua provincia, Imperia, ha colto l’occasione per raccontare la sua storia, le sue esperienze, le emozioni, il percorso per arrivare al top della categoria, il rapporto con il suo grande amico Davide Massa, anche lui di Imperia, arbitro internazionale tra i più apprezzati della Serie A.
Stefano Alassio, dalla periferia ai palcoscenici internazionali…
«Sono nato a Imperia, ma originario di Chiusavecchia, nella Valle Impero. Qui ho le mie radici, le mie origini. Sono entrato nell’associazione nel 1995, quando dicevano che gli arbitri di Imperia erano buoni fino a Capo Berta. E che per un arbitro di Imperia oltre Capo Berta, dove c’è Diano Marina, era quasi impensabile arrivare. Era già tanto se qualcuno arrivava ad arbitrare a Savona. A volte la nostra mente si adatta a quello che dice una cartina geografica o i dogmi classici. E così nella testa nasce la convinzione che “il mio confine va un po’ più in là”. Così vado a Genova, poi mi spingo fino a Spezia. Poi quando sono passato a livello nazionale ho cominciato ad andare nelle regioni limitrofe. E allora capisci che è tutta periferia ed è tutto centro, che la periferia in effetti non esiste».
Come è nata la sua passione per l’arbitraggio?
«La mia grande passione naturalmente era il pallone, fin da piccolo. Ero uno che protestava con gli arbitri, uno che oggi... mi espellerei, lo dico onestamente. Contestavo sempre… e a giocare a calcio in verità non ero molto bravo. Finché un giorno protestai più del solito e l’arbitro mi disse: “È inutile che fai il fenomeno, se sei bravo dimostralo e vieni a fare il corso arbitri”. Io mi dissi: sai cos’è? Io ci vado a fare il corso e poi vediamo chi va più avanti. Ai tempi ti davano 30mila lire e io volevo essere autonomo, non volevo sempre chiedere ai miei genitori i soldi per uscire a mangiare una pizza o andare in discoteca. O comprarmi un paio di scarpe. È stata una di quelle cose che inizi e poi ti piacciono sempre di più e dici: vado ancora un pezzettino avanti, ma poi non riesci più a smettere».
La chiave del successo...
«Talvolta è l’insuccesso. Io ho fatto l’arbitro fino alla Serie D. Ero un arbitro normale, non ero scarso, ma neppure un fenomeno. La Serie D aveva circa 200 arbitri, al terzo anno o salivi in C (e accadeva ai primi 24) o tornavi ad arbitrare in regione. Se eri tra i primi 45-50 potevi fare un corso per diventare assistente. Meditavo di smettere, ero in vacanza in Spagna e per tre giorni di fila mi chiama il mio presidente per convincermi a fare il corso, ma io non ne volevo sapere. Mi convince ma gli dico: ok vado, ma poi comunque smetto. Ed eccomi qua, non ho smesso. Ho avuto fortuna, perché c’erano colleghi molto più bravi di me, con più talento».
Il colpo di fulmine
«Fare l’arbitro è una cosa che o ti prende o la lasci, è una scintilla che scocca. Se non c’è la scintilla non ci si può trascinare nel fare una cosa che non piace. Andare a fare una partita con 22 giocatori in campo, più altri dieci, più tutte le persone fuori che comunque ce l’hanno con te in qualche modo... O hai una passione che ti porta, sennò dici “ma perché?”. Come diceva un mio ex designatore che è stato un grandissimo arbitro, Stefano Farina, “ci sono persone che in palestra tirano su 40 chili, poi 50, poi 60… poi si fermano. Quelli bravi vanno avanti… 80, 90».
I percorsi diversi tra l’arbitro e il calciatore?
«A differenza del calciatore, anche se sei il talento più cristallino della storia dell’arbitraggio non puoi essere preso dalle giovanili e lanciato in Serie A, ma devi fare tutte le categorie: giovanili, dilettantistiche e professionistiche, poi forse arriverai in Serie A. In Italia siamo 30mila associati, e tra questi 10 arbitri e 10 assistenti internazionali, di cui due di Imperia, io e Davide Massa. La difficoltà nello scalare la classifica è soprattutto il fatto di partire sempre dal fondo. Tu magari a livello provinciale sei bravissimo, poi entri nel livello regionale e riparti di nuovo da ultimo, così devi risalire tutta la classifica ed essere di nuovo primo. Ci vuole la capacità di ripartire con il sogno di poter arrivare dove pochissimi arrivano».
Il rapporto con Davide Massa
«Io ho un fratello di sangue, più grande di tre anni, mentre Davide è per me un fratello acquisito. Noi abbiamo iniziato insieme trent’anni fa. Lui è di Caravonica, paesino della Valle Imperio, io di Chiusavecchia, due-tre chilometri in linea d’aria. Abbiamo fatto un percorso praticamente parallelo. L’anno scorso eravamo al Santiago Bernabeu, ci guardavamo e sorridevamo nervosamente, quasi increduli, emozionati, dicendoci: ma è possibile che due ragazzi della Valle Impero siano qui per la prima partita di Champions League dopo la riapertura del Santiago Bernabeu? Uno stadio bellissimo, nel quale ho sempre pensato di poter andare al massimo da visitatore. La musica della Champios e a bordo campo... Davide e Stefano, dalla Valle Impero. Alla fine della partita avevo messaggi da tutte quelle persone, quegli amici che frequentavo da bambino. È la rappresentazione di un sogno, che però non si è mai discostato dalla realtà. Se si riesce ad avere un obiettivo concreto il sogno si può realizzare. È difficile, ci vuole sacrificio».
I sacrifici del giovane Stefano Alassio
«Gli amici che mi scrivevano quei messaggi erano gli stessi di sempre, quelli che quando avevo 18-19 anni, dopo la pizza, loro andavano in discoteca e io me ne andavo a casa perché il giorno dopo arbitravo in Prima Categoria, nell’entroterra di Savona. Io non andavo in discoteca, anche se la partita il giorno dopo era alle 15. Andavo a dormire presto. Per un ragazzo di vent’anni non è stato facile. Loro non insistevano e quando tentennavo erano loro a costringermi ad andare a casa».
Il sogno realizzato
«Fare il derby di Milano: ne ho fatti tre. Poi ho fatto anche tre derby di Roma, tre di Torino e poi, naturalmente, per un ligure, fare quello di Genova è qualcosa che ti riempie il cuore. Di tutti i derby credo sia stata l’emozione più forte. Emotivamente il punto più alto».
L’aneddoto
«L’arbitraggio è una scuola di vita, ti aiuta a relazionarti con le persone. Anno 1999, inizio giugno: spareggio di Terza Categoria tra Badalucchese e Poggese Ceriana, adulti che si sono picchiati per tutta la partita. Un paio di settimane dopo vado a fare l’esame di maturità: un professore mi guarda e mi dice: “Ma lei è tranquillissimo, le due prima di lei hanno pianto…”. Io gli ho detto: “Guardi, due domeniche fa ho arbitrato un partita in cui ho fatto tre espulsioni da una parte e tre dall’altra, gente di 40 anni che si è picchiata per 90 minuti. Voi l’aspetto di persone che vogliono mettermi le mani addosso non ce l’avete, quindi andiamo avanti tranquillamente”. Ho fatto un esame di maturità perfetto. Perché fare l’arbitro ti abitua a gestire lo stress, l’agitazione».
Le giovani generazioni viste da Stefano Alassio
«Bisognerebbe fare in modo di poter tornare un po’ indietro, non solo nel contesto sportivo, magari anche quando si prende un brutto voto a scuola. Chiedere al ragazzo il perché, invece di assecondarlo quando dice che il professore ce l’ha con lui. Ci lamentiamo spesso delle giovani generazioni, ma io sono dell’idea che il manico conti molto di più. Mio nonno diceva che il frutto lontano dall’albero non cade mai, cade sempre abbastanza vicino. Quindi, se noi pensiamo che il lavoro debbano farlo direttamente i giovani penso sia un errore. Io a 15 anni non avevo le conoscenze, le capacità per decidere autonomamente cosa fosse giusto e cosa sbagliato. Avevo bisogno di qualcuno che mi dicesse: “Guarda che stai facendo la cosa sbagliata”. E io non la facevo più».
La provincia di Imperia e le aggressioni agli arbitri
«Purtroppo c’è una statistica non bella negli ultimi anni. La provincia di Imperia e stata una di quelle con il maggior numero di aggressioni fisiche agli arbitri. E non a livello percentuale, ma per numeri assoluti. Spesso è colpa di genitori che pensano di avere un figlio che un giorno potrebbe diventare un giocatore importante. Oggi se la filosofia è “vincere a tutti i costi” diventa un problema per chi gioca, per chi arbitra, per chi guarda. E purtroppo lo sport molto spesso è conseguenza oppure anticipa quello che è il malessere della società. Io dico sempre che le parole “vittoria” e “sconfitta” sono sempre pericolose. Adesso va di moda un’altra frase pericolosa: “O vinco o imparo”. Ci sono pubblicità che lo dicono… una follia! Bisogna insegnare ai ragazzi ad accettare la vittoria e ad accettare la sconfitta. Poi dopo si impara, sia dalla vittoria che dalla sconfitta. Perché io devo imparare anche quando vinco, non solo quando perdo. Anzi si arriva a non nominare la parola sconfitta, dicendo “o vinco o imparo”. Secondo me, ripeto, è una follia».