Il personaggio

Intervista all'architetto vercellese che ha doppiato Capo Horn

«Io sono un marinaio. Fin da giovane. Salivo sulle barche dei genitori dei miei amici, aiutavo al porto. Finché un giorno mi è stato chiesto se volessi “salire a bordo” come equipaggio. Così ho viaggiato molto e per quattro anni sono stato anche marinaio professionista. All’inizio degli anni ‘80 il dollaro ha raddoppiato il proprio valore: armatori e broker prendevano skipper come me per portare le barche dall’Europa agli Usa. Portavo, consegnavo e tornavo: almeno sette volte. Poi ho terminato l’università e ho aperto il mio studio, senza mai abbandonare il mare: a luglio, dedico le mie ferie ai ragazzi dell’agonistica, a un sailing camp in Liguria, dove non si usano cellulari e device ma si sta in mare per imparare».

Intervista all'architetto vercellese che ha doppiato Capo Horn
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Architetto e marinaio. Alessandro Tosetti, classe 1960, vercellese, vive a Torino, socio onorario dello Yacht Club Sanremo, unisce passioni diverse e le trasforma in professione e sfide.

L'architetto vercellese che ha doppiato Capo Horn

Da poco ha terminato l’itinerario della Global Solo Challenge (GSC), il giro del mondo in solitaria, senza scalo, per i tre grandi capi (Capo Horn, Capo di Buona Speranza e Capo Leeuwin), con un formato unico e un budget ridotto. Lo ha affrontato con Aspra, ULDB ’65 studio Vallicelli di Roma del 2002, è rimasto 200 giorni in mare, arrivando a Sanremo il 30 aprile.

Com’è nata la passione per le barche?

«Io sono un marinaio. Fin da giovane. Salivo sulle barche dei genitori dei miei amici, aiutavo al porto. Finché un giorno mi è stato chiesto se volessi “salire a bordo” come equipaggio. Così ho viaggiato molto e per quattro anni sono stato anche marinaio professionista. All’inizio degli anni ‘80 il dollaro ha raddoppiato il proprio valore: armatori e broker prendevano skipper come me per portare le barche dall’Europa agli Usa. Portavo, consegnavo e tornavo: almeno sette volte. Poi ho terminato l’università e ho aperto il mio studio, senza mai abbandonare il mare: a luglio, dedico le mie ferie ai ragazzi dell’agonistica, a un sailing camp in Liguria, dove non si usano cellulari e device ma si sta in mare per imparare».

Perché si decide di partire in solitaria per un’impresa come la Global Solo Challenge?

«C’è un sentimento dietro. Il desiderio. E’ il più potente dei sentimenti. Basti pensare al desiderio d’amore ma anche il desiderio del vento, di correre dall’alta alla bassa pressione. Questo desiderio era dentro di me ma non si era mai dichiarato, non avevo mai pensato a circumnavigazioni di questa portata».

Un desiderio che l’ha fatta però muovere in direzioni precise, anche se è rimasto una sorta di rumore di fondo

«Sì, quando ho costruito la mia barca, l’ho pensata non per stare in porto ma adatta ad affrontare ogni situazione. Ci ho messo 12 anni a perfezionarla e collaudarla. Ho letto quasi tutti i libri di circumnavigatori del passato. Pian piano ho pensato che ci potessi riuscire anche io».

Quando è scattata la scintilla che ha poi determinato la partenza?

«Quando ho letto il bando della GSC cinque anni fa, invece di vedere i punti di esclusione come accadeva per gli altri bandi, ho visto le carte in regola per partecipare. Ho iniziato a effettuare la manutenzione di Aspra in funzione del soddisfacimento dei parametri richiesti e ho presentato il progetto per partecipare alla prova di qualifica».

Cosa aveva proposto?

«In solitaria dalla Liguria al Portogallo in estate. Mi hanno risposto che sarebbe stata una tratta troppo tranquilla in quei mesi e così ho mantenuto la rotta ma in invernale, contro vento e contro corrente. Ho anche combinato, in quell’occasione, un progetto ambientale in collaborazione con la città di Imperia e ho scritto sul mare “sail green”, una scritta lunga 100 chilometri tra Italia e Francia, con la traccia di rotta satellitare YellowBrick Tracking. L’obiettivo era quello di portare l’attenzione di un pubblico vasto, non solo dei velisti, alle tematiche ambientali marine e sono soddisfatto dei riscontri».

Poi ha continuato a “disegnare” sul mare

«Ho rotto il sartiame, ho tenuto comunque in piedi l’albero di Aspra ma sono dovuto tornare indietro di 1.500 miglia in Nuova Zelanda per intervenire. Quando sono ripartito da Auckland mi sono accorto che il tracciato di questo “ritorno” era articolato e in una parte sembrava una splendida farfalla, la Red Admiral simbolo della Nuova Zelanda: ho limato la scia e realizzato un quadro che la riproduce, donandolo al commodoro di Auckland. Yacht Club Sanremo è infatti gemellato con il Royal New Zealand Yacht Squadron».

Ha avuto paura durante questo viaggio da 27mila miglia nautiche?

«Ho capito che ci sono due tipi di paura. Quella che arriva quando vivi una situazione critica, non sai bene come affrontarla, ma hai la preparazione tecnica e le competenze per affrontarla e risolverla. Poi c’è la paura dell’ignoto ed è quella che ho percepito in due momenti: superata Madera e capendo che la prua successiva sarebbe stato il Brasile a 7mila miglia e poi quando uno dei due piloti automatici ha iniziato a mal funzionare; dovevo decidere se proseguire o fermarmi a ripararlo. Avevo paura di soffrire perché la tappa successiva sarebbe stata a 5mila miglia di distanza, a Capo Horn e sapevo che sarebbero state settimane terribili se non avessi avuto il supporto del pilota automatico».

Come ha affrontato quella paura?

«Mi sono fatto coraggio. Sono andato avanti».

Quali altre emozioni?

«Delusione per gli inconvenienti tecnici, estasi, frustrazione, gratitudine percepita a terra: quando sono partito ma anche quando ho dovuto provvedere alle soste tecniche e sono stato aiutato in tempi da pit stop di Formula Uno».

E lo stress?

«Penso al frastuono di fondo quando si naviga e questo produce stress, tanto da dover cercare punti di calma, fermarsi per lavori di riparazione e sospirare di sollievo per il silenzio».

Il momento più intenso?

«Ricevere il benvenuto dell’International Association of Cape Horners da parte di sir Robin Knox-Johnston, vincitore nel 1969 della prima regata intorno al mondo in solitaria senza scalo, quando ho doppiato Capo Horn diciamo che ha prodotto un certo effetto. Siamo nove italiani. Poi l’impresa va considerata in tutta la sua interezza: 200 giorni in mare, un pezzo di vita, un ritmo che racchiude la percezione di un obiettivo e di uno spazio che abitiamo. Da piccoli si girava il mappamondo, ora le mappe virtuali, è intenso pensare che l’ho sperimentato quel giro: il desiderio del marinaio di aver visitato tutti gli oceani, di averne memoria reale, è stato appagato. Ho un punto di vista diverso sulla vita quotidiana».

Cosa ha mangiato?

«Ho portato con me un 20% di cibo disidratato come quello degli astronauti, del fresco per i primi giorni, 60 uova, 5 kg di parmigiano porzionato, salumi, componenti secchi in buste separate come melanzane, carote, broccoli, spinaci... con cui preparavo il minestrone che consumavo con il cous cous. Insomma, ho mangiato bene: avevo una cambusa di tutto rispetto».

Cosa insegna il mare?

«Il mare è il più grande contenitore di storie; ha l’inesauribile capacità di assorbire e restituire storie. Il mare ha continuato a darmi piacere e l’ho vissuto e lo vivo intensamente, adeguandomi alle sue leggi, senza pensare a sforzi inutili per cercare di sopraffarlo».

Quando non è in mare e lavora, come architetto, di cosa si occupa?

«Lavoro molto con gli artisti, con progetti culturali e di design, in tutto il mondo. Sono specializzato e attratto da una particolare tecnica di illuminazione che si avvale di pigmenti e quindi elimina lampadine e led».

Da marinaio ci sono altri progetti a lunga scadenza?

«Nello stretto di Gibilterra, nell’incontro con le orche, si è rotto il timone che mi arriva nuovo a giorni. Sistemerò Aspra, starò con i ragazzi dell’agonistica e poi mi occuperò degli arretrati da architetto per il momento. Nessun progetto all’orizzonte, se non un libro che mi è stato chiesto, per raccontare il viaggio emozionale compiuto».

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