Avere due occhi per vedere e poi un obiettivo per fermare un momento, una storia, il senso di ciò che si vede e che forse si cerca. Stefano Stranges, torinese, è un fotografo che ha scelto di dedicarsi alla narrazione per immagini di temi sociali: dallo sfruttamento alle guerre civili, dai disastri causati dalle catastrofi naturali alle problematiche dovute ai cambiamenti climatici. Con il progetto «Homeland» ha girato e sta girando il mondo esplorando il processo di ri-costruzione fisica ed emotiva di una dimora, nonostante gli sradicamenti culturali e le difficoltà materiali, perché «l’essere umano trasforma ogni luogo in una casa – spiega – “Casa” è ogni spazio abitato e co-abitato. Per questo l’umano riesce a costruire il proprio nido anche in mancanza di pareti, porte, finestre».
Cosa significa la fotografia per lei?
«La fotografia per me è un racconto fatto per immagini che di tanto in tanto mostrano una storia non conosciuta. Una storia pur sempre estrapolata dallo scorrere del tempo».
E’ stata la fotografia a scegliere lei o lei a scegliere la fotografia?
«Ci fu un preciso momento durante il periodo degli studi universitari. Camminavo sotto i portici della mia città, Torino, con un’amica studentessa di un corso di fotografia all’accademia. Lei camminava sempre accompagnata da una piccola macchina fotografica, era per catturare eventuali istanti interessanti nella quotidianità. Quel giorno ci fu un’immagine lungo quei portici che fece nascere il desiderio di avere anche io una fotocamera che mi accompagnasse. Quello fu il mio primo scatto. Fino ad allora non contemplavo minimamente la fotografia».
Cosa vuole raccontare? Cosa cerca quando fotografa?
«Sin da quando ho iniziato a interessarmi di fotografia, ero attratto da quella documentaristica. Era il 2001. Da piccolo restavo incuriosito anche solo dalla luce che proveniva da una finestra di un palazzo chiedendomi: “Chi vivrà in quella casa?”. Forse quel tipo di curiosità negli anni ha creato la base del mio lavoro. Nelle storie che mostro cerco di ritrovare spesso quell’intimità del “chi è che vive quella storia?” Vorrei che le immagini potessero avere la forza di dare un contributo reale a quello che spesso viene occultato o travisato».
Come si definisce?
«Mi sento un fotografo versatile, mi piace la forma e l’essenza degli spazi vuoti all’interno di un’inquadratura, direi che inizio a leggere un’immagine prima dall’ombra, poi dalla luce; ma sono anche attratto dai lati talvolta contrastanti, bizzarri o addirittura comici di alcune situazioni».
La foto che non dimentica?
«Ci sono diverse foto, che poi combaciano con gli istanti, che non potrei mai dimenticare. Una, ad esempio, è la foto di una donna, Odeta, all’interno di un campo sfollati nel North Kivu (Congo) esattamente alla base delle grandi miniere di coltan. Odeta aveva 21 anni, era disabile, senza arti inferiori. Ciò era dovuto a una grave malattia contratta quando era bambina. Era una vittima del conflitto armato; stuprata circa due anni prima da un brigante facente parte di una gang di “ribelli” che avevano devastato il suo villaggio. La conobbi all’interno della sua tenda nel campo. Si era trascinata a terra per presentarsi e salutare, una lunga veste le copriva la menomazione alle gambe. Era insieme alla madre e a un bambino di poco più di un anno che teneva in grembo. Era suo figlio Jeckson ed era il figlio nato dalla violenza subita, ma era anche l’amore della sua vita. Scattai una fotografia. Quando la mostrai e raccontai la sua storia a uno dei primi incontri organizzato per parlare di quel lavoro, una donna tra gli spettatori decise di contattarmi alcuni giorni dopo perchè era rimasta catturata da quella fotografia e dalla sua storia; mi chiese come avrebbe potuto aiutare Odeta, anche se era solo una delle tante storie drammatiche in quell’angolo del mondo. La misi in contatto con chi avrebbe potuto portarle un piccolo sostegno economico mensile per lei e suo figlio, ricevendo notizia di tanto in tanto dall’organizzazione umanitaria che fungeva da tramite. Questa iniziativa funzionò: Odeta, madre e figlio riuscirono a trasferirsi in una struttura più adeguata anche alle problematiche fisiche di Odeta stessa. Era una goccia in mezzo a un oceano, ma era una foto che aveva in qualche modo raggiunto un fine nobile grazie alla sensibilità di qualcuno».
Quale il suo rapporto con la guerra, con la crudeltà, con la violenza?
«La storia di Odeta è un esempio del mio rapporto con la guerra e la crudeltà. In quella foto decisi di focalizzare l’attenzione sull’amore che quella donna dava al figlio, nonostante fosse in un certo senso legato sempre alla violenza subita. Scelsi di non scoprire il vestito per mostrare i monconi segni dell’amputazione. Ciò avrebbe distratto dal focus dell’immagine, anche se probabilmente sarebbe stata una foto più “drammaticamente impattante”. Ho preferito puntare sul gesto d’amore nonostante la violenza. Molte volte, io come credo tanti colleghi ci sentiamo impotenti testimoni davanti a ciò che ci accade intorno e alle storie che, seppur per pochi istanti, viviamo. Non possiamo far altro che riportarle nel modo più onesto ed efficace, ma non possiamo cambiarle. Le persone invece, spesso, si aprono, ti dedicano il loro tempo, ti mostrano il loro urlo disperato pensando che tu possa poi cambiare quello status. Ahimè, ciò non è in nostro potere e questo è svilente».
Di recente è stato in Ucraina, qual è la situazione che ha visto con i suoi occhi?
«Ci sono stato con la giornalista Lidia Ginestra Giuffrida insieme a una missione di Mediterranea Saving Human. Abbiamo documentato le condizioni degli sfollati nei grandi campi rifugiati e nelle strutture adattate a centri di accoglienza nella zona di Leopoli. Un adattamento degli spazi considerato come sistemazione di emergenza temporanea. Questa emergenza dura però da tre anni e non si vede una fine. Le persone non hanno più nemmeno la forza di sperare, non sanno se potranno mai tornare nelle loro case lasciate da un giorno all’altro. Quelle case che si trovano ormai in territorio ostile e governato dal nemico e che forse non esistono più. A Leopoli la realtà quotidiana è apparentemente la stessa che vidi nel 2014 dove la guerra a est era già iniziata; negozi, ristoranti e bar aperti come se il conflitto fosse lontano anni luce. Quando però si osservano i dettagli nelle strade, si vedono i segni della zona di guerra; grossi sacchi imbottiti fungono da protezione alle finestre ad altezza strada; la maggior parte delle icone, delle statue e delle strutture culturali e religiose sono barricate con delle protezioni anti schegge, perché anche qui la possibilità di un drone che scatena l’inferno è imminente. In quasi ogni luogo, infatti, è previsto un bunker e quando scatta l’allarme ci si rifugia finché non viene dato il semaforo verde; allora la vita ricomincia. Una quotidianità dove il grande piazzale della città, il Piazzale dei Martiri, è una distesa di lapidi tempestate di bandiere dei vari battaglioni e questo cimitero di soldati e volontari si allarga ogni giorno di qualche metro. Un viavai di madri, di ragazzini orfani, di coppie anziane che si stringono davanti alla fotografia di giovani arruolati per il fronte ai quali un giorno è arrivata la lettera con l’ordine di partire per difendere la nazione. La popolazione di Leopoli è quasi totalmente composta da donne, bambini, anziani e mutilati di guerra che si mischiano con i rifugiati che arrivano dalle zone occupate. Si sopravvive in questa realtà distopica tra un caffè aperto e un giovane musicista di strada che non è partito per il fronte perchè ha il permesso speciale che lo esonera in quanto disabile, pronto a mostrarlo ai militari che sorvegliano le strade e cercano di scovare chi non ha risposto alla chiamata. In questo contesto le giornate proseguono senza una previsione futura, con una popolazione stanca e disillusa, tra il coprifuoco dalle 23 alle 6 e la legge marziale, nell’attesa di ricevere una telefonata per informare che il proprio marito o il proprio figlio è diventato un martire combattendo per il Paese».