Di fronte a un fenomeno che è letteralmente esploso sulle tavole degli italiani, come quello della Dop Economy, occorre cercare di avere un quadro il più ampio possibile, con la consapevolezza che occorre anche tutelarsi. A fare il punto della situazione è Michele Catalano, Agronomo componente del Dipartimento Agro Alimentare di Federconsumatori.
Quello della DOP Economy è un discorso relativamente recente, ma i prodotti dei nostri territori che godono di queste certificazioni hanno una storia decisamente più lunga nel tempo.
Com’è cambiato il consumo degli italiani da quando sono state introdotte queste sigle?
«Come Federconsumatori, e in qualità di rappresentante dei diritti dei cittadini-consumatori, riteniamo che l’introduzione delle certificazioni DOP, IGP e STG abbia segnato una svolta culturale nel modo in cui gli italiani si rapportano al cibo. Se un tempo la qualità era tramandata oralmente o affidata alla reputazione locale, oggi è certificata, tracciabile e riconosciuta a livello europeo». Un cambiamento nei consumi: più attenzione, più valore: «I risultati del 23° Rapporto Ismea-Qualivita, la cosiddetta DOP Economy ha raggiunto nel 2024 un valore record di oltre 20,7 miliardi di euro alla produzione, con una crescita del +52% in dieci anni. Questo dimostra che sempre più consumatori scelgono prodotti certificati, riconoscendone la qualità, la sicurezza e il legame con il territorio; le Indicazioni Geografiche (IG) rappresentano oggi il 19% del fatturato dell’intero comparto agroalimentare italiano. E l’ export di prodotti DOP/IGP ha superato i 12 miliardi di euro, segno che anche all’estero cresce la domanda di autenticità».
Cosa è cambiato per i consumatori?
«Maggiore consapevolezza: oggi i consumatori leggono le etichette, cercano le sigle DOP/IGP, e si informano sulla provenienza. Più fiducia nel Made in Italy: le certificazioni sono diventate un criterio di scelta, anche a fronte di un prezzo più alto. Richiesta di trasparenza: i cittadini vogliono sapere cosa mangiano, da dove viene, chi lo produce».
Quali sono le sfide ancora aperte?
«Nonostante i progressi, permangono alcune criticità, come l’accessibilità economica: i prodotti certificati spesso hanno prezzi più alti, non sempre sostenibili per tutte le famiglie. Rischio di confusione: la proliferazione di marchi e diciture può disorientare il consumatore. Fenomeni di italian sounding: all’estero, prodotti che imitano nomi italiani minano la fiducia e danneggiano il vero Made in Italy. Federconsumatori continuerà a battersi per un consumo informato, accessibile e giusto, affinché le certificazioni non siano solo un’etichetta, ma una garanzia concreta di qualità, legalità e rispetto per il lavoro e il territorio».
Negli ultimi tempi sempre maggiore attenzione è stata dimostrata verso i prodotti alimentari e la filiera di produzione. Periodicamente vengono emanate nuove norme che impongono indicazioni particolari sulle etichette di cibi e vini, ma come si devono leggere queste informazioni? C’è un decalogo per riuscire a districarsi nella selva delle indicazioni (di primo acchito mi viene in mente il discorso dell’olio con le indicazioni di provenienza delle olive) in modo tale da portare in tavola dei prodotti sani e creati in Italia?
Quali sono le sigle e le diciture che non devono mai mancare su un’etichetta? E quali quelle di cui dubitare?
«Come Federconsumatori, riteniamo che il diritto all’informazione sia il primo strumento di tutela per ogni cittadino-consumatore. Per questo abbiamo elaborato un decalogo pratico per orientarsi tra le etichette alimentari, distinguere i prodotti realmente italiani e sani, e difendersi da diciture fuorvianti».
Le diciture di cui diffidare
1. «Gusto italiano», «ricetta tradizionale», «tipo parmigiano»: non garantiscono origine né qualità, e sono spesso usate per evocare il Made in Italy senza rispettarne gli standard;
2. «Prodotto in UE» senza specificare il Paese è poco trasparente. Pretendi l’indicazione precisa;
3. «Con ingredienti selezionati» è una frase generica, non significa nulla se non accompagnata da dettagli;».
Il fenomeno dell’italian sounding: è diventato quasi un caso scuola quello del “Parmesan”, prodotti i cui nomi ricordano quelli di marchi o prodotti noti e supercertificati, che però non rispecchiano le stesse regole. E’ un inganno (senza necessariamente dover scomodare il codice penale) dal quale ci si riesce a difendere in un qualche modo, o viene sempre messo in pratica?
Dove sono gli esempi più eclatanti?
«Come Federconsumatori, denunciamo da anni il dilagare dell’ Italian Sounding, una pratica commerciale scorretta che sfrutta nomi, colori, immagini e riferimenti alla cultura italiana per vendere prodotti che nulla hanno a che vedere con l’Italia né con i suoi standard di qualità. Il “Parmesan” è forse il caso più noto: un formaggio prodotto all’estero, spesso negli Stati Uniti o in Germania, che richiama nel nome il Parmigiano Reggiano DOP, ma non segue il disciplinare di produzione, non ha la stessa qualità, né la stessa origine. Eppure, viene venduto come se fosse “italiano”, sfruttando la reputazione costruita da secoli di tradizione. Non serve scomodare il codice penale: l’Italian Sounding è un inganno commerciale, perché induce il consumatore a credere di acquistare un prodotto italiano autentico, quando non lo è. In molti Paesi extra-UE, dove le denominazioni DOP e IGP non sono protette, questa pratica è purtroppo legale. Ma resta eticamente scorretta e dannosa per i consumatori, che pagano per un prodotto che non ha le caratteristiche promesse, i produttori italiani, che subiscono concorrenza sleale e infine per l’economia nazionale, che perde valore e occupazione».
Come difendersi?
«Occorre cercare le certificazioni ufficiali: DOP, IGP, STG. Sono le uniche garanzie di origine, qualità e tracciabilità. Poi controllare l’etichetta: deve indicare chiaramente il Paese di produzione e confezionamento. 3. Diffidare da nomi “simili”: Parmesan, Mozarella, Provolone-style, San Daniele ham… sono imitazioni. Verificare il produttore: un prodotto italiano autentico ha sede e stabilimento in Italia. Consultare banche dati ufficiali: come quelle del MIPAAF o dell’Unione Europea. E infine segnalare i casi sospetti: alle autorità competenti o alle associazioni dei consumatori. Invitiamo tutti i consumatori a leggere attentamente le etichette, a informarsi e a segnalare pratiche scorrette. Solo con scelte consapevoli possiamo difendere la nostra salute, il nostro portafoglio e la nostra economia».