Il personaggio

Beppe Braida si racconta: “Fin da piccolo volevo far ridere”

«Come diceva Eduardo De Filippo “gli esami non finiscono mai”. Io ho sempre paura di non essere all’altezza, di non essere adatto per un determinato evento, mi pongo sempre un sacco di domande».

Beppe Braida si racconta: “Fin da piccolo volevo far ridere”

Beppe Braida fin da piccolo sapeva di voler far ridere e ha trasformato un talento in un mestiere.

Come si fa a far ridere le persone?

«E’ un dono: o ce l’hai dentro o non ce l’hai. Non esistono scuole che possono insegnartelo, possono suggerire i tempi tecnici, possono “rifinire” ma non altro».

Quando ha capito di avere quel talento?

«I bambini sognano di diventare astronauti o calciatori, io sognavo di far ridere gli altri. I miei genitori erano contentissimi… essendo figlio unico, mi pensavano in banca, con un posto di lavoro sicuro. Hanno subito iniziato a preoccuparsi che non rispondessi alle loro aspettative».

Ha iniziato subito a far ridere?

«Sì e per questo a scuola avevo sempre 7 in condotta. Raccontavo storielle, facevo le parodie degli insegnanti, i doppiaggi, inventavo momenti assurdi e nutrivo la mia passione».

La passione è diventata passione, ma non subito: come è andata?

«Ho praticato la gavetta, ho iniziato prima ancora che ci fosse la tv perché c’erano tanti posti dove ci si poteva esibire: le trattorie, le cremerie, i centri anziani… scherzando dico che mi mancano solo le camere ardenti e poi ho recitato ovunque. Ho girato l’Italia in lungo e in largo. Ho macinato chilometri e questo mi è servito. Mi ero promesso che se entro i 40 anni non ce l’avessi fatta, avrei mollato e avrei aperto un agriturismo, considerando il mio amore per la natura e gli animali».

Ma non è stato necessario…

«A 37 anni sono approdato a Zelig e così mi sono auto condannato alla comicità per tutta la vita».

Come è cambiata la comicità da quando ha iniziato lei a ora?

«Tantissimo. le nuove generazioni scrollano i video sui social alla ricerca del fenomeno del momento, che subito viene però dimenticato. Il linguaggio è cambiato. Il concetto di politicamente corretto ha influito non poco. Certe commedie, certi film degli anni Ottanta sarebbero irrealizzabili oggi. Non puoi più parlare di niente per timore che qualcuno si possa risentire».

Come continuare, dunque?

«Stando al passo con i tempi. Detesto i vecchi che vogliono fare i giovani. Uso i social, certo, ma continuo a conquistare le nuove generazioni “sul campo” cioè a teatro, dove il contatto con il pubblico è reale. Chi mi scopre dal vivo poi continua a seguirmi. Tutta la gavetta fatta è servita e serve e poi si cercano i contenuti giusti. Io ho un autore con cui ho costruito un ottimo rapporto».

E’ in teatro con il suo one man show “Piano B”: cosa racconta?

«Questo Paese è confuso e dopo il Covid la confusione è aumentata; mentalmente non c’è più una persona normale. Lo spettacolo è un viaggio attraverso le generazioni e quindi confusione su confusione».

Perché il pubblico dovrebbe venire a teatro?

«Molte volte ci si fa condizionare da un video, da pochi secondi di performance. Io dico: venite a vedermi dal vivo e poi giudicate se sono bravo; non prima. Questo vale per me ma anche per tutti gli altri artisti. Uno dei commenti che mi regala più soddisfazioni è “non pensavo fossi così bravo”. Questo si scopre solo dal vivo».

Fino a quando lavorerà?

«E’ il pubblico a decretare la tua fine e poi o ti ricicli o, se non c’è più interesse, fai altro. Per fortuna in questo momento non devo pensarci ma credo sia un processo naturale. Vedremo cosa accadrà e come arriverò alla vecchiaia. E poi magari c’è il piano b dell’agriturismo…».

L’incontro che porta nel cuore?

«Quello con Massimo Troisi. L’ho conosciuto al Teatro Nuovo di Torino: lui si esibiva con il suo gruppo La smorfia, io lavoravo per una radio della città e lo intervistai. Un’emozione anche perché ero un ragazzino. Tantissimi anni dopo ho avuto l’onore di ricevere il Premio Troisi e quasi è stato un segno».

E l’esperienza a in tv?

«La prima puntata di Colorado, quando ho smesso di essere uno dei tanti comici di Zelig e sono diventato capo comico. A Colorado ho dato tanto e ho ricevuto tanto. la televisione aveva la capacità di unire le famiglie, di attirare l’attenzione e infatti a teatro arrivano i 30enni, quelli che mi hanno intercettato in un programma e scelgono di vedermi dal vivo. Ora il piccolo schermo non ha più questo potere».

La battuta che vorrebbe aver detto lei?

«Una di Beppe Grillo che ritengo attuale ancora oggi. Gli avevano chiesto in che modo si potesse fermare l’espansione della Cina e lui rispose “mandate per tre mesi i nostri sindacati in Cina e manderete a picco l’economia cinese”. Grandi verità in una battuta insomma».

Rimpianti nella sua carriera?

«No. Anche quando nel 2021 ho partecipato e abbandonato l’Isola dei famosi, per quanto non fossi convinto che un comico fosse adatto per un reality, devo dire che nel bene o nel male quell’esperienza mi è rimasta addosso e sono contento di averla affrontata».

E nella vita privata?

«Nemmeno. Quando vivi un amore così forte, intenso, passionale, non hai posto per altro. Un amore che mi ha dato grandi gioie e delusioni, euforia e disperazione come tutti i grandi amori. Non sarei riuscito a stare fermo in un posto: amo viaggiare, amo il contatto con le persone».

Sogno nel cassetto?

«Tornare alla conduzione di un programma tv con un gruppo di comici. Sono direttore artistico di un laboratorio comico che si esibisce ogni mercoledì sera al CAB 41 Cabaret di Torino e vede le potenzialità e il talento delle nuove generazioni. Mi piacerebbe tornare con loro sullo schermo. Come conduttrice, per affetto vorrei al mio fianco Rossella Brescia, ma anche in questo caso mi piacerebbe dare spazio a una presenza nuova».

Ha fiducia nei giovani? Hanno potenziale?

«Assolutamente. E magari avessi avuto qualcuno, quando ero giovane, pronto a darmi una possibilità. Noi siamo cresciuti con il coltello fra i denti, ora se posso mi piace essere d’aiuto. In Italia la meritocrazia è difficile da applicare. Nel mio caso, per esempio, essere comico e conduttore è visto come un limite, negli Stati Uniti sarebbe stato apprezzato, sarebbe stata la dimostrazione del valore di un artista capace di spaziare».

Quanto è legato a Torino?

«In realtà non molto. Sono piemontese al 50% e al 50% ciociaro per mamma che è nata nello stesso paese di Nino Manfredi, Castro dei Volsci. Sono in equilibrio tra l’eccessiva riservatezza dei piemontesi e la parte più calorosa dei ciociari. Sono molto legato al Sud, per me vuol dire tornar a casa e nutro un amore particolare per Napoli. Mi hanno assegnato numerosi premi e mi vogliono bene».

Si fa ridere da solo?

«Sì! In casa parlo con me stesso, mi pongo domande e formulo le risposte, insomma, manca solo un Tso…».

Si sente arrivato?

«Mai. Sarebbe l’errore più grande. Come diceva Eduardo De Filippo “gli esami non finiscono mai”. Io ho sempre paura di non essere all’altezza, di non essere adatto per un determinato evento, mi pongo sempre un sacco di domande».

Come si vede tra 10 anni?

«Al mare che adoro, con un cane, a vivere di ricordi.. può sembrare un’immagine patetica ma credo che dopo anni vissuti vorticosamente, avrò voglia di qualcosa di facile».