L'intervista

Il sogno del Dottor Sorriso, primo clown in Italia a entrare negli ospedali: "Un mondo senza malattie"

«Il sogno per eccellenza sarebbe quello di constatare come il mio sia diventato un lavoro inutile perché le malattia non esistono più... Come sogno professionale, vorrei continuare a lavorare, a viaggiare, a insegnare e formare altri Dottor Sorriso».

Il sogno del Dottor Sorriso, primo clown in Italia a entrare negli ospedali: "Un mondo senza malattie"
Pubblicato:

"Sogno un mondo senza malattie": l'intervista al Dottor Sorriso, primo clown in Italia a entrare negli ospedali per allietare i malati.

Intervista al Dottor Sorriso, primo clown in Italia a entrare negli ospedali

Primo clown dottore in Italia e direttore della Fondazione Dottor Sorriso, attiva in tutta Italia. Nato a Milano da mamma spagnola e papà italiano, Rodrigo Morganti, classe 1973, nel raccontare il suo percorso, racconta anche cosa voglia dire essere un professionista negli ospedali, con il camice bianco anche se non si è medico, con il naso rosso e la consapevolezza di vivere ogni giorno emozioni e relazioni diverse.

Come è iniziato tutto?

«Vengo da una famiglia borghese; i miei genitori mi hanno sempre lasciato grande libertà ma non si aspettavano dicessi “faccio il clown”. Le arti pop mi hanno sempre affascinato, ho seguito un corso di fumetto, ho praticato la capoeira, mi sono innamorato dell’idea romantica dell’arte di strada e poi la mia strada si è creata mentre stavo camminando».

E il Dottor Sorriso come è arrivato?

«L’idea mi è stata proposta ma avevo 20 anni e avevo paura. Ho detto no. Accadono poi fatti magici che ti fanno cambiare idea».

Quale fatto magico?

«Ero in Svizzera per un corso da clown. Era il 1986. L’ultimo giorno mi avevano parlato di una situazione tesa e grave in ospedale e io guardavo quella porta chiusa. E’ uscito da lì un clown dottore e ho visto il sorriso dei genitori in un luogo in cui era difficile credere che quel sorriso potesse esserci. E’ stato come vedere tutti i colori in una bolla di sapone. Come assaggiare il cioccolato per la prima volta e pensare di volerlo mangiare per sempre. Ho iniziato a essere clown dottore all’Istituto tumori di Milano».

Come si relazione con i bambini, con le famiglie?

«Ogni stanza è un mondo. Ci sono pazienti piccoli in Pediatria ma anche adulti di 30-35 anni che vengono curati per tumori cosiddetti infantili o per la cronicità. L’esperienza aiuta e si lavora sulla formazione continua del clown. Non esiste una “ricetta” segreta. Siamo professionisti, ciascuno fa ciò che può, ma non è un mestiere per tutti, occorre una propensione. Occorre partire da una consapevolezza: il clown è una possibilità, non deve intervenire obbligatoriamente e il clown si rivolge alla parte sana del bambino».

Cosa significa?

«Rispondo con un esempio: se un bimbo ha male a una mano, i medici si concentreranno sulla mano, i genitori chiederanno come sta la mano. Il clown invece no, porrà in evidenza tutto il resto. Questo anche nelle situazioni più estreme».

Ha un ricordo speciale degli incontri che ha vissuto?

«Oncoematologia. Un bambino di 7 anni; io alle primissime esperienze. I medici dovevano effettuare un prelievo di liquido dalla spina dorsale con una puntura. Il bimbo mi chiede “mi accompagni?”, mi prende per mano. Siamo in una stanza piccola, io vedo un ago che mi sembra largo ed enorme. Sto per svenire. E’ il bimbo che mi prende per mano e mi dice “dottore, stai tranquillo, non fa male”. Quel contatto così empatico, così immediato mi ha permesso di comprendere la qualità che serve. Non andiamo in corsia per distrarre. Non possiamo dire bugie».

Come si gestiscono le emozioni?

«Non credo esistano emozioni negative, o meglio, la negatività risiede nella stagnazione delle emozioni. Rabbia e paura sono necessarie, non devono essere celate o nascoste: noi abbiamo l’opportunità di dare loro dei nomi e passiamo da un’emozione all’altra. E’ questo il bello degli esseri umani. Un Dottor Sorriso fa capire che posso avere il coraggio di mostrare ogni tipo di emozione perché sono tutte sacre. Viverle e attivarle significa anche trasformarle. Essere clown amplifica le qualità di ciascuno. Per me è una professione e questo significa che si può sempre migliorare perché è un obbligo morale svolgere bene questo mestiere, ma è anche una missione. Il bello è che quello che faccio io lo stanno facendo altri in tutto il mondo».

Cosa significa essere clown in ospedale?

«Tutti pensano di saperlo. Può accadere che un genitore dica al proprio figlio “guarda chi arriva, guarda chi ti ho portato!” e un bambino pensa al suo calciatore preferito, non certo a me... e quando mi vede può anche pensare che io sia un idiota... A volte lavoro sul piccolo paziente, a volte sui genitori, a volte sulla musicalità della stanza, a volte sul vicino di stanza per arrivare a un altro bimbo. Ci sono infinite possibilità ma non andiamo “a far ridere” e rispettiamo i “no” che ci vengono comunicati».

Cosa ha imparato?

«Vado, do e ricevo. Altrimenti non avrei le energie necessarie per proseguire. Ho imparato che anche io posso avere bisogno di aiuto e posso chiederlo».

Ha un sogno?

«Si sono già realizzati dei sogni incredibili ed è difficile pensarne altri. Certo, il sogno per eccellenza sarebbe quello di constatare come il mio sia diventato un lavoro inutile perché le malattia non esistono più... Come sogno professionale, vorrei continuare a lavorare, a viaggiare, a insegnare e formare altri Dottor Sorriso».