Il personaggio

L’intervista a padre Giovanni Onore, il missionario che difende la foresta pluviale

«L’Ecuador è uno dei punti con la più alta biodiversità al mondo, ma la vera ricchezza è la modestia scientifica: c’è ancora tantissimo da studiare e scoprire. La passione degli studiosi che ci hanno preceduto ci insegna che preziose collezioni e conoscenze rischiano di perdersi senza istituzioni che se ne prendano cura».

L’intervista a padre Giovanni Onore, il missionario che difende la foresta pluviale

Guardare e lavorare con il cuore. Nato a Costigliole d’Asti, entomologo e docente universitario, laureato in Scienze Agrarie all’Università di Torino, frate missionario prima in Congo, poi, dal 1980, in Ecuador. Da decenni salva la foresta pluviale ma soprattutto si occupa delle persone con Fondazione Otango: padre Giovanni Onore, 85 anni, è stato ospite dell’Università del Piemonte Orientale per un incontro con gli studenti e ha firmato un protocollo d’intesa con Upo e associazione Ananda Giri di Guardabosone (Vercelli).

In cosa consiste questo accordo?

«Si tratta di una collaborazione strategica triennale incentrata sulla tutela della biodiversità e sullo sviluppo di attività di ricerca e didattica congiunte tra il Piemonte e la foresta pluviale ecuadoriana. Si creeranno due aree di studio gemelle: a Guardabosone, l’associazione Ananda Giri ha messo a disposizione un ettaro di bosco con annesso apiario, “Il Bosco dell’Upo”; in parallelo, un ettaro della foresta di Otongachi in Ecuador, una delle aree a maggiore biodiversità del pianeta, è stato denominato “Foresta dell’Upo”. Entrambe le aree saranno dedicate alle finalità didattiche e di ricerca previste dall’accordo».

Quali sono?

«L’oggetto principale della collaborazione sarà lo scambio di studenti, dottorandi, ricercatori, docenti e specialisti, con l’obiettivo di promuovere la conservazione della biodiversità e dell’etnodiversità. L’Università metterà a disposizione le proprie strutture e il proprio personale docente e ricercatore, mentre la Fondazione Otonga contribuirà con le competenze maturate nell’ambito del Centro di educazione ambientale e con le risorse logistiche presenti a Quito e nella foresta. Gli obiettivi? Proteggere l’ambiente, generare informazioni attraverso la ricerca scientifica, suggerire soluzioni ai problemi ecologici e studiare l’aspetto olistico dell’interconnessione uomo-natura».

Quale il vostro punto di forza?

«L’Ecuador è uno dei punti con la più alta biodiversità al mondo, ma la vera ricchezza è la modestia scientifica: c’è ancora tantissimo da studiare e scoprire. La passione degli studiosi che ci hanno preceduto ci insegna che preziose collezioni e conoscenze rischiano di perdersi senza istituzioni che se ne prendano cura».

Si sente italiano o ecuadoregno?

«Da 50 anni vivo fuori dall’Italia e mi accorgo di commettere qualche errore nel parlare in italiano! Sono cittadino del mondo e mi sono sempre trovato bene ovunque io sia andato, mi sono adattato ovunque mi sia stato chiesto di andare come frate. Ogni Paese ha aspetti positivi e aspetti negativi. La mia famiglia è la missione. Qui in Italia, in Europa, mi colpisce l’insicurezza dei giovani, la povertà spirituale, la fragilità. Non sono temprati alle prove della vita e più cerchiamo di evitare queste prove e più li indeboliamo».

Cosa ha trovato quando è arrivato in Ecuador?

«Le Ande, le persone che vivono tranquille sopra ai vulcani che possono eruttare da un momento all’altro, l’allegria dei canti e dei balli anche nell’estrema povertà, anche in una società che vive perlopiù alla giornata. E poi, 1.600 specie di uccelli, migliaia e migliaia di insetti, ognuno dei quali serve a qualcosa nell’economia della natura, e 60mila specie di farfalle, le vipere più grandi del mondo, 150 scorpioni differenti, uno dei quali porta il mio nome, colibrì stupendi che compiono il lavoro delle api. Insomma, una biodiversità unica».

Che cosa insegna questa biodiversità?

«A guardare tutto con l’ottica del cuore e non con quella del denaro. Le attività militari, per esempio, contribuiscono per il 5,5% al riscaldamento globale: altro che blocco del traffico! Bisogna fermare la guerra. Se non ci occupiamo fin da subito di questa nostra Casa, noi umani moriremo tutti».

Quali cambiamenti ha toccato con mano?

«Sono in Ecuador dal 1980 e ho assistito a più cambiamenti climatici in questi 45 anni rispetto a tutti quelli che sono avvenuti dall’epoca dei Romani a oggi. Ho rinvenuto a 2mila metri la rana Rhinella marina che prima viveva sotto i mille metri… Questo ci deve far riflettere. Per questo ho acquistato foreste e ho creato un centro di ricerca. Ho fatto dipingere una bussola per ricordare sempre quale deve essere la nostra direzione, la nostra missione».

In Ecuador rispettano maggiormente la natura?

«In ogni Paese c’è chi ne capisce l’importanza e la ama e la difende e chi la vuole sfruttare per guadagnarci. Tutti gli uomini sono uguali: c’è chi pianta gli alberi e chi disbosca. C’è chi è saggio e chi non lo è. La biodiversità stessa sembra essere diventata una moda e qualcuno se ne approfitta. I politici, gli avvocati, gli altolocati si riempiono la bocca della parola biodiversità ma poi si intascano i soldi. Per sostenere progetti che davvero aiutano il territorio e la foresta, bisogna conoscere le persone e gli enti».

Come Fondazione Otanga, nata nel 1997?

«Otanga vuol dire lombrico. Una specie umile. Come noi. Negli anni ‘90 lavoravo come docente alla Pontificia Università Cattolica dell’Ecuador, a Quito, con la cattedra di Zoologia degli invertebrati. Un giorno ho ricevuto la visita di un biologo italiano: voleva vedere la foresta e io l’ho accompagnato. Mentre eravamo intenti a contemplare la bellezza del posto, sentiamo il rumore di una motosega: qualcuno stava tagliando gli alberi, magari per far posto a un piccolo allevamento di mucche. Il mio amico mi ha chiesto come si poteva preservare la foresta e io ho risposto: “Comprala tu e così sarà protetta per sempre”. Lo fece davvero: attraverso una donazione che io “trasformai” in ettari. Poi sono arrivate altre donazioni… e così è iniziato tutto. E ora ci occupiamo di istruzione, educazione, adozioni a distanza».

Come è cambiato il suo approccio con la realtà del Paese in cui abita, della foresta, delle persone?

«Prima compravo foreste e studiavo tutto ciò che vi era all’interno. Ora investo sul futuro e cioè sui giovani, attraverso borse di studio e progetti. Qualcuno è diventato biologo, uno studia i ragni e ha sposato un’aracnologa, un altro (che da piccolo cercava lombrichi giganti con me) è diventato scultore e le sue opere sono in Vaticano, in Libano, ha portato la bellezza in tutto il mondo. Ma fin dal mio arrivo ho dovuto cambiare il mio modo di pensare, di guardare. Faccio un esempio: stavo osservando un animale e dico al mio accompagnatore “che bella capra”, “è una pecora”, mi risponde. Io, laureato, insisto anche con un pizzico di ignoranza. Era una pecora, anche se non aveva il pelo, anche se assomigliava a una capra: in Ecuador c’è anche quella specie. Mai mettersi in cattedra, mai pensare di avere la verità in tasca e di andare per il mondo come conquistatori. E vale anche per i turisti. Ascoltare, conoscere, conservare».

Ha mai avuto paura durante questi anni di missione?

«La paura è fatta di ignoranza. C’è sempre ma si supera perché l’amore supera tutto. Ci sono le malattie, le difficoltà economiche, i momenti di scoraggiamento. Mi hanno sparato e sono stato vicino alla morte. La vita è fatta di tutto questo, ma essere missionari significa amare la gente e credere nella connessione con le persone, condividere la povertà e gli ideali, cercando di aiutare».

Cosa la unisce ancora al Piemonte?

«La mia gioventù, mio fratello e mia sorella, e poi ho studiato a Pallanza, dai Marianisti. E’ la mia terra di origine e tante donazioni sono arrivate e arrivano da qui».

La soddisfazione più grande?

«Tutto è bello, ma la soddisfazione più grande sono i miei alunni, gli interessi che condivido con loro, l’accompagnarli spiritualmente. Ognuno di loro ha la sua carriera, compie le sue scelte; ma non dimenticano gli ideali che abbiamo posto come basi. Sono gli anni più belli della mia vita».