Bialetti, l'epica di un'invenzione nel racconto della nascita della prima caffettiera
Celestina Bialetti racconta la storia della sua famiglia nel libro «Un sogno di polvere e acqua» insieme ad Alessandro Barbaglia.

«Ha qualcosa di epico, no? Di epica familiare, la nostra, certo, ma non solo. Mi pare che abbia qualcosa di epico anche pensare che le altre caffettiere discendano tutte da lei», da quella moka che Alfonso Bialetti inventa e il figlio Renato rende nota in tutto il mondo. A raccontare è Celestina Bialetti («ma per favore diamoci del tu e chiamami Tina, io sono Tina per tutti»), la più piccola della famiglia Bialetti, «l’unica rimasta». Lo fa anche in un libro «Un sogno di polvere e acqua» insieme ad Alessandro Barbaglia. Un viaggio nel passato, nella storia e, appunto nell’epica, di un’intuizione, di un’invenzione realizzata nel 1933, e del mondo che, negli anni, è cambiato. Lo scenario è quello di Crusinallo, di Omegna, del lago d’Orta, un territorio connesso alla famiglia Bialetti e molto amato. La compagnia è quella della sua gatta, Luna.
Cosa l’ha spinta a raccontare proprio ora?
«Tenevo da tempo degli appunti nel cassetto e avevo stampato un piccolo libricino per i discendenti, dove raccontavo di Alfonso e di sua moglie Ada, i miei genitori. Ho accantonato tutto per la mia maculopatia. E’ stato mio figlio Matteo a propormi l’aiuto di uno scrittore come Alessandro Barbaglia che ha interpretato magnificamente i miei pensieri: la sua scrittura è poesia. Così abbiamo realizzato un vero romanzo di memorie. Ho recuperato la parte della storia che non ho vissuto in prima persona perché non ancora nata, insieme al dopo. Mi sembra fondamentale conservare la memoria per sapere dove andiamo».
Suo padre Alfonso ha inventato la prima macchinetta per “fare il caffè” come al bar. Com’era?
«Un sognatore. Badava ai rapporti umani, faceva lavorare chi gli stava simpatico anche se magari rendeva meno. Se qualche commerciante non riusciva a pagare le fatture, gliele quietanzava, con mia madre che non condivideva perché pensava alla famiglia, ai figli. Mio papà pensava alla sua caffettiera e punto. Non era interessato al successo o ai guadagni: quando Ada aveva aumentato di una lira il prezzo della moka, non se ne era nemmeno accorto. Alla fine ha lasciato tutto a Renato. Loro due in comune, forse, avevano solo il fatto di essere padre e figlio. Erano come la polvere e l’acqua».
E Renato com’era?
«Un vero imprenditore che ha reso “nervosi” gli italiani con il caffè! Nel ‘45, con il boom della caffettiera, sentivo crescere la fama di Renato. Si metteva in mostra, poteva sembrare matto ma era il suo modo di essere e di fare parlare di sé, per far parlare della moka e quindi far crescere l’impresa. Aveva capito il valore della “reclame”, così si chiamava allora la pubblicità, in anticipo sui tempi, e quindi aveva acquistato tutti gli spazi di corso Sempione, a Milano; aveva realizzato lo spot per Carosello. Lui era l’omino con i baffi, lui era su tutte le caffettiere e le rendeva inconfondibili».
Ed è stato Renato a volere e a costruire la fabbrica?
«La più grande fabbrica del mondo per la produzione di caffettiere. Lunga oltre cento metri, di vetro, con in alto la scritta Bialetti e il simbolo: l’omino coi baffi. Ora purtroppo è solo un edificio in rovina».
Qual era il suo rapporto con suo fratello?
«Speciale, impastato d’amore e rispetto. Eravamo in assoluto disaccordo su numerosi argomenti, per cui si partiva discutendo “col fioretto” e si arrivava “alle sciabolate”. Quando sono nata, in tempo di guerra, è stato l’unico ad accogliermi con entusiasmo. Era il ‘45. Era appena tornato da due anni nei campi di concentramento in Germania. Non aveva nemmeno capito fossi sua sorella quando mi ha presa in braccio, pensava fossi figlia di Germana (la sorella più grande) e quindi sua nipote. Mi ha salutata come un segno di ripresa della vita. Dalla morte di mia cognata nel ‘93 ci siamo fatti compagnia; io ero divorziata e spesso trascorrevamo l’estate insieme. Andavo “a litigare con lui” in Costa Azzurra».
Si ricorda un episodio?
«Avevo 48 anni, bionda, abbronzata. Abbiamo incontrato una coppia della nostra zona: si sono fermati a parlare con Renato senza degnarmi di uno sguardo. Atteggiamento cambiato quando sono stata presentata. Mi sono infuriata in silenzio. Ho immaginato che avessero pensato che io fossi la “nuova fiamma” di Bialetti».
Lei non ha mai voluto essere parte dell’impresa, dell’azienda: perché?
«Quando l’officina era piccola, si respirava un’atmosfera di famiglia. Io preparavo i ghiaccioli con acqua e menta e li portavo in fonderia. Ero piccola. Tutti si conoscevano. Poi con la fabbrica è cambiato il modo di lavorare, i rapporti erano diversi ed è venuto a mancare quello sguardo di meraviglia di me bambina. Ho scelto con convinzione e con passione di diventare maestra e non me ne sono mai pentita. Non ho mai avuto la quadratura da commerciante o da imprenditrice».
Una maestra che ha precorso i tempi. Suo fratello Renato diceva che “rovinava gli italiani”, è vero?
«Sì, perché mi facevo dare del “tu” dai bambini, pensavo fosse necessaria l’autorevolezza e non l’autorità. Organizzavo le settimane verdi per portare gli allievi in mezzo alla natura e li facevo scrivere tantissimo. Quando sono stata a Crusinallo, per avere luce in una sera di festa in cui era mancata la corrente elettrica, abbiamo preso le candele della chiesa: non ci si poteva fermare! Ho smesso quando l’insegnamento è divenuto routine».
Ha sentito il peso del cognome Bialetti?
«Poco, non ho mai dato importanza ai cognomi. Io ero Tina. Per me hanno sempre contato le persone: sia che fossero principi dell’isola che non c’è, sia che fossero clochard di città. Mi irrigidivo se venivo presentata come la sorella di Renato Bialetti. Io vado d’accordo con tutti e frequento coloro con i quali ho più feeling».
Cosa le ha insegnato la sua famiglia?
«Il rispetto per il prossimo. A essere me stessa, senza fingere, nel bene e nel male. A non dipendere da nessuno. So riconoscere i miei torti e chiedere scusa ma più di frequente ho ragione!».
Ha ancora sogni nel cassetto?
«Non ne ho e questo un po’ mi rattrista perché mi piacerebbe avere qualche desiderio da soddisfare. Capisco, a quattro volte 20 primavere, di dover trascorrere la mia esistenza come un fiume tranquillo che prima o poi arriva al mare, ma... ».
Intanto, però, fa la nonna.
«La mia nipotina Adele Maria, figlia del mio Andrea, mi chiama “nonna Rottenmeier” ma andiamo perfettamente d’accordo. Lei è sveglia, intelligente: insieme dipingiamo su vetro, cuciniamo, chiacchieriamo».
Rimpianti?
«Uno grandissimo: non essermi fatta raccontare di più da papà. Sono nata che lui aveva 56 anni e ho dialogato poco con lui. Ora vorrei sapere tutto. Non solo della caffettiera, anche dei suoi anni in Francia, nella Legione straniera, dei suoi pensieri».
Un momento con lui che ricorda?
«Staccando da lavoro mio padre andava all’osteria per il merendino cioè pane, formaggio e vino. Un’abitudine che ha mantenuto anche quando è andato in pensione. A casa nostra si cenava, puntuali, alle 19. Una sera non vedendolo rientrare, mia madre, mi ha mandata a cercarlo: non avevo ancora 18 anni. Era al Caffè Sacchi con Renato e gli amici di mio fratello. Sono rimasta lì anche io a chiacchierare e mangiare qualcosa. A casa abbiamo sopportato, tutti zitti, la scenata di mia madre...».